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GUERRIERO CAROSI

 

ARCHIVIO FOTOGRAFICO

PENSIERI

“Quando incominciarono nel 1965 per Carosi i sintomi del male mi disse: “ Io mi ritiro”.
Ma non si ritirò. Venne sempre al Comune e in seguito, quando non poté più alzarsi dal letto, io, insieme ai consiglieri e alla guardia comunale andavo a casa sua. Là mi dava istruzioni e mi diceva il da farsi.
Una volta, stava per scadere il periodo di tempo che aveva stabilito il comune per li medico di Castel di Lama dott.Calvaresi. Per farlo continuare a lavorare doveva essere il Sindaco stesso con la giunta a deliberarlo. Gli telefonai, allora era ricoverato a Bologna.

“Come facciamo?” gli dissi.
“Ritorno io” rispose, e tornò da Bologna per due giorni, poi si ricoverò di nuovo”. - Ettore Nardinocchi -

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Fratello di Nicola

Ascoli Piceno, lì 22/12/1982

Mio fratello è stato sempre un uomo coraggioso, fin da ragazzo non aveva paura di nulla; amava il rischio e l’avventura. A volte in bicicletta correva sul muro di cinta del paese che è a strapiombo sul fosso. Una volta nel giugno del 1945, quando i tedeschi fuggitivi, braccati risalivano verso il nord, Nicola si trovava in una casa colonica di Valle Orta di Appignano; tutt’intorno si sentivano boati assordanti; dall’alto del colle vide in lontananza un soldato tedesco, armato, che si dirigeva con un mulo verso Ripaberarda-Castignano. Erano momenti difficili, il terrore attanagliava tutti. Nicola non volle sentire nulla e nessuno; disarmato, forte solo della sua prestanza fisica e del suo coraggio, gli andò incontro, lo disarmò e lo consegnò ai carabinieri di Appignano. Per quell’episodio nessun ufficio ha mai avuto richiesta di riconoscimento per meriti partigiani. Decisamente rifiutò di sottoscrivere una dichiarazione a favore di un avventuriero che di quel gesto voleva assumere la paternità. L’episodio è rimasto sconosciuto. Sebbene più volte sollecitato non volle mai chiedere il titolo di partigiano per l’attività svolta a favore degli ex prigionieri di guerra, inglesi o americani fuggiti dai vicini campi di concentramento amorosamente accolti e sfamati. Perché chiedere ricompense, – era solito ripetere – è semplice dovere di cittadino!

Quando poi fu ricoverato all’ospedale Beretta di Bologna venni convocato per un colloquio dal Prof. Calbrò che non aveva ritenuto opportuno parlare direttamente a mio fratello. Trovai Nicola seduto sul letto, intento al gioco delle carte, sereno, quasi distaccato. Poche parole e la terribile diagnosi: un brutto male alla bocca non concedeva nessuna speranza. Tornai nella camera di mi fratello in attesa. Nicola era ancora seduto sul suo letto, con il mazzo delle carte tra le mani; si interruppe appena, mi guardò e senza scomporsi mi chiese: “Che ti ha detto? Parla! Voglio sapere!”. Il tono della voce era pacato, sicuro. Eravamo sempre abituato ai discorsi franchi, privi di infingimenti, e anche questa volta parlai chiaro, senza nulla nascondere. Le mani di Nicola si fermarono per un attimo. Nessuna parola gli uscì di bocca; sul viso nessun segno, poi ricominciò a muovere le carte, in silenzio.

Un anno dopo, nel maggio del 1966, mio fratello viveva gli ultimi attimi della sua vita. In un momento di lucidità mi chiamò, prese un foglio di carta e a fatica vi scrisse: “Il male mi sta arrivando alla gola, tra poco sarà tutto finito”. Nei suoi occhi grandi, resi enormi e più profondi dal male, non una lacrima né un’ombra di smarrimento. Poi rientrò nel silenzio che tra non molto sarebbe stato fatale.

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